Un futuro senza orecchie

Published in Juliet n.87, 1998

Francis Kuipers

L’ambiente è massicciamente inquinato, tanto da dover temere che il pianeta, nella sua globalità, abbia subito danni irreparabili. “NO FUTURE”, come diceva lo slogan della generazione punk, è il com­mento più pertinente a questo stato di fatto. L’individuo, con la testa riempita dalle finzioni dei media, è sempre più tormentato dall’incertezza: inoltre non solo è insicuro a riguardo delle proprie prospetti­ve, ma è pure costretto a dubitare della moralità di un mondo dominato da una meritocrazia tecnologica che, per profitto, è disposta a devastare l’ambiente e a facilitare la costituzione di una condizione post-umana.
Ottavio Paz affermava che ogni volta che una società si trova sull’orlo della crisi, si rivolge istintivamente verso le sue origini per cercarvi un segnale rassicu­rante. Dal punto di vista del musicologo non suggerisco un ritorno all’antico, né propongo la ripresa di forme collaudate da tempo, penso invece che la crisi di cui parlava Paz sia giunta al capolinea, e che, per guardare al futuro con maggiore chiarezza, bisogna comunque cercare ulteriori spunti di crescita nel nostro passato, anche nel nostro passato musicale, magari attraversandolo e percorrendolo in tutti i sensi. Forse vale la pena di riflettere sulla probabilità che l’ultima cultura globale e verace, dotata di un idioma idoneo ad articolare esperienza di vita e mondo dei sogni, sia stata quella dell’età della pietra.
Questa affermazione non deve suonare strana, dato che nelle società arcaiche la musica si è sviluppata per motivi e attività sociali ben specifici, e non per qualche astrusa forma di intrattenimento. La musica è stata spesso usata in contesti rituali per raggiungere uno stato d’animo allargato e per aprire le porte della mente a una ricezione pisco-religiosa molto lontana dagli schemi razionalistici. Ci sono musiche e suoni che sollecitano impulsi, come ci sono suoni pilotati ad arte, in modo da ottenere particolari risultati. La musica è stata via via adoperata per effet­tuare guarigioni o per offrire conforto in tempi di lutto e disperazione. Ma non solo questi sono stati i suoi canali d’uso: spesso è stata impiegata per accompagna­re e rendere meno faticoso il lavoro fisico, per instillare istinti patriottici, per stimolare gli istinti di aggressività o per aiutare i soldati ad avere coraggio in battaglia. Ci sono addirittura musiche create appositamente per incutere sentimenti di terrore nel cuore del nemico. Esistono in certe società tribali combinazioni di melodia e di ritmi rituali chi fanno credere al guerriero di potersi ergere con forza invincibile contro la divinità della morte. Così, possiamo concludere che al di là del razionalismo moderno (nel quale ci troviamo impantanati) molti riferimenti musicali risiedono nella remota antichità delle culture magiche e mitiche che costituiscono le nostre radici e il nostro inconscio: più di qualsiasi altro linguaggio artistico, la musica permette all’ascoltatore di trascendere il mondo intorno a sé e di scoprire che possiede un lato interiore, nascosto e allargabile.

In Cina, ai tempi di Confucio, ritenevano che la musica rispecchiasse lo spirito della gente, mentre gli antichi Greci sapevano che la musica era capace di com­muovere così fortemente poiché era in stretto contatto con l’anima: potere dilaniatore di Dioniso che Hermann Nitsch risemantizzerà all’interno del solco cristiano.
La musica risponde a due caratteristiche principali. Come qualsiasi lingua è una forma di comunicazione con regole specifiche, inoltre è capace di provocare stati emotivi profondi. Ogni tipo di emissione sonora corrisponde a un preciso riflesso emotivo in stretta relazione con i cambiamenti biochimici del nostro cer­vello. Il valore emotivo di un brano di musica non dipende solo dall’effetto di una serie di frasi musicali, ma, anche, dalla sua maniera unica di stimolare i centri ner­vosi. I suoni che funzionano come fonti di energia ricevono, nel corrispettivo, risposte umane e ambientali.
Anche nel campo della pubblicità esistono metodi per valutare e misurare le tensioni e le reazioni dell’ascoltatore alle informazioni musicali; allo stesso modo esistono procedure per quantificare l’impatto delle comunicazioni verbali e sono­re. Infatti, nessuno spot attira l’attenzione del possibile cliente se la colonna sono­ra non funziona. Anche se inizialmente la musica deve stare in piedi secondo ter­mini puramente musicali, alla fine la composizione viene interpretata come un tra­mite per lo sviluppo di altre idee. A parte il fatto che, in conseguenza dell’inquina­mento sonoro, fra non molto, una gran parte della popolazione sentirà solo con l’aiuto di protesi acustiche, la funzione della musica, la sua vera ragione d’esistere, rimane sempre la stessa. Purtroppo sembra che gli scienziati (o quant’altri potenti decidono a gran velocità e con gran sregolatezza il futuro dell’umanità e dell’ambiente) non si rendano conto di questo mentre ci avviciniamo con passi da gigante all’anno 2000.

Nel Rinascimento i compositori erano cortigiani e dovevano giovare solo a una persona (al loro patrono regale o ecclesiastico), ora, al contrario, devono soddisfare organizzazioni ed enti musicali molto sofisticati e strutturati. Se all’epoca era spesso sufficiente essere bravi per avere credibilità, ora è invece necessario ottenere il successo economico per essere accreditati come status symbol.
Allora, uno dei motivi per cui l’arte, in questo secolo, non si è evoluta allo stesso modo della scienza è di convenienza politica. La paura -uno dei vecchi strumenti del potere- ha creato una cultura dai substrati nostalgici, tanto che la cosid­detta musica ‘seria’ (in gran parte con origini nel romanticismo del secolo scorso), negli ultimi decenni è stata vista come luogo di comodo dove i problemi possono essere dimenticati!
Organizzazioni burocratiche -di tipo governativo o regionale- tengono artifi­cialmente in vita forme musicali e modi di interpretarli ‘seri’ che a dir poco si debbono definire obsoleti ed esausti, e queste stesse -all’interno della loro corporazione autoprotettica- vedono l’ipotesi di un qualsiasi sviluppo artistico come una minaccia per la loro stessa esistenza.
Infine una singolarità: molti assessori alla cultura e persone ufficialmente coin­volte a vario titolo nell’organizzazione culturale, molto spesso non hanno un bri­ciolo di cultura, né possiedono un sistema organico che permetta loro di entrare nel merito delle decisioni di spesa (alle volte molto costose), giacché il più delle volte ci si basa sull’umore del momento, sul clientelismo e sulla capacita dei PR di creare delle buone fondamenta di discussione.
È pure utile ricordare come la musica sia sempre stata utilizzata dal potere per autocelebrarsi e per consolidarsi. Per questo motivo, nei paesi con delle strutture di comando molto rigide -ad esempio con le dinastie cinesi o nell’Egitto dei faraoni- i cambiamenti delle formule musicali sono sempre state minime, anche nelle singole interpretazioni dell’esecutore.
Oltretutto, la musica occidentale è stata sempre sottoposta a censura, nello stesso modo in cui l’evoluzione della composizione è stata regolarmente schiac­ciata o strumentalizzata dal potere vigente. Come ogni antropologo sa, censurare la danza, impedendo alla gente di muovere il corpo con un ben preciso ritmo liberatorio, equivale a toglier l’anima a un popolo; eppure è quello che molte volte è successo con l’espansione bianca nei confronti delle culture primitive. È la storia che ce lo insegna: gran parte della musica è collegata a danza e movimento ed è provvista quasi sempre di una funzione iniziatoria. Oggigiorno, a parte qualche rara festa popolare (capace di far perdurare antiche e sopite radici) o la fibrillazio­ne di qualche ‘rave party’ (che però di solito si svolgono in maniera semiclandesti­na, dato che per lo più esulano dal rispetto delle leggi vigenti di pubblica sicurez­za), il ballare, come pure I’esecuzione musicale, sembra contrastato nelle modularità espressive oltre che nelle possibilità di espressione.

Le discoteche sono strettamente sottoposte a controlli di tipo economico e a vincoli polizieschi, e i locali che dispongono dei necessari permessi per fare musica fino a notte inoltrata sono sempre più ridotti. Così, con queste premesse vengo­no a mancare anche le esecuzioni semispontanee di ballate e canzoni popolari, allo stesso modo in cui i mandolini e le fisarmoniche nelle osterie di un’Italia ormai votata all’industrializzazione selvaggia se ne stanno appesi al chiodo (rari esempi di sopravvissuti li riscontriamo nei cosiddetti ‘posteggiatori’ che seppure di rado ancora s’incontrano a Napoli, e non solo in accezione turistica).
Ricordiamo, di sfuggita, un precedente di questo impoverimento espressivo: i ‘talking drums’ -che collegavano la musica ritmata con la danza e con la comuni­cazione a distanza- furono aboliti dall’egemonia bianca tra gli schiavi del Trinidad (con il risultato che in seguito si inventò la Steel Band, facendo uso di barili di petrolio) allo stesso modo in cui le musiche sacre in Europa furono forzatamente vocali: i tamburi nel medioevo cristiano erano vietati dato che erano visti come una specie di deviazione satanica, quando non li si usava in ambito militare, e questo per l’evidente carica ossessiva e di stordimento che la percussione dello strumento porta con sé. Nella stessa musica orchestrale le percussioni vengono adope­rate come componenti ornamentali o di circostanza.
Nel Giardino delle delizie di Hieronymous Bosch, chiasso e caos esistono nell’inferno, dato che quello è il luogo dove si è posseduti dal demonio e dove l’urlo che si abbina al dolore può sfiorare I’ennesima potenza. D’altra parte c’era la con­vinzione che I’uomo avesse una specie di pre-cognizione, in gran parte inconscia, di certe forze primordiali legate alla sfera demonica e che potevano essere evocate per mezzo della musica o, a dir meglio, del frastuono collettivo.
L’uso del ritmo è poi tornato in Occidente grazie all’evoluzione della musica trascinante e liberatoria del gospel: schiavi neri -a cui avevano tentato di togliere tutto (non solo la libertà e una qualsiasi dignità umana, ma anche qualsiasi radice o riferimento culturale)- hanno creato la più meravigliosa musica di quesito secolo. II gospel -che unisce inni religiosi europei, suoni ancestrali africani e ritmi a base di battiti di mani- è stato il mezzo che, non solo ha permesso a quei popoli sradicati di sopravvivere culturalmente e fisicamente, ma è anche servito a unire il popolo afro-americano in un unico crogiuolo.
Dopo la melodia del gospel è ritornata la liberazione dei tamburi, per mezzo del jazz e del blues (stigmatizzala fino a poco fa come la musica del diavolo) e del rock’n’roll, espressioni musicali ben presto imitate e diffuse in tutto il mondo.

All’opposto, assumendo come parametro di normalità il non investire mai in un prodotto che non sia già ben sperimentato e collaudato commercialmente, l’industria musicale ha sempre cercato di contrastare questo istinto di libertà creativa, comportandosi in maniera particolarmente cinica nello sfruttamento delle esigenze giovanili, tanto da arrivare alla conclusione che lo smercio del prodotto è risultato più importante della creazione stessa. Se la riconoscibilità e la digeribilità del pro­dotto sembrano essere i pilastri di questa industria massificatrice, ecco che le varianti minime e i particolari aggiornamenti stilistici e tecnici divengono i suoi espedienti programmatici, anche perché si ritiene che gran parte della gente prefe­risca ascoltare quello che è comunemente abituata a sentire: un tipo di musica che immette in stati emozionali e mentali molto consueti. All’uomo senza qualità piace ascoltare qualcosa di rassicurante, qualcosa che conosce già. Anche per questo l’industria musicale ripete sempre la stessa formula, anno dopo anno, onda dopo onda. Si ascolta in continuazione o musica nostalgica o musica già orecchiata e che non ricordiamo bene di aver sentito.
A causa di queste premesse, la capacità di concentrazione e di attenzione. soprattutto tra i giovani, si sta riducendo con una rapidità allarmante nelle società industriali: i docenti e le persone di spettacolo hanno constatato come sia sempre più evidente, come ormai, senza voler contrastare questo calo di qualità, ci si accontenti di comunicazioni sonore brevi e concentrate. In questa linea semplificatrice ci si rende altresì conto che pochissimi ascoltatori hanno una qualsiasi coscienza della storia dell’umanità o del concetto di essa.
Non c’è memoria o curiosità riguardo al passato, soprattutto per la musica e le sue antiche funzioni: il passato sta sparendo dall’immaginazione dell’individuo. Non esiste la capacità di concentrazione immaginativa, non c’è la capacità di viag­giare nel passato meno recente, immedesimandosi in altre realtà e in altri valori, tramite la lettura, il suono o altre discipline artistiche. Così, il ruolo del compositore, come quello di ogni altro artista contemporaneo si fa più difficile.
In confronto a oggi, i Modernisti godevano di tempi più facili, dato che dovevano solo rifiutare tutto quello che era successo prima di loro per proclamare un ordine nuovo. Ora che i pubblicisti e i creatori di immagini prevalgono nel mondo dell’arte, comunicare con la maggioranza delle persone è fondamentale, altrimenti l’arte viene giudicata insignificante e di élite. Peraltro si pretende che la cultura venga abbinata ai prodotti: un disco recente delle Spice Girls può essere ascoltato solo se si compra una lattina di Pepsi Cola, mentre l’organizzazione di una mostra specula sulla vendita di cataloghi e gadget. All’opposto il movimento New Age pontifica di un interesse dilagante per un’epoca nuova, per un viaggio profondo nelle nostre anime, anche di una nuova coscienza del sacro attraverso la musica. Eppure e evidente, tutti questi non sono altro che falsi fenomeni, costruiti a puro scopo commerciale!
La stessa musica diffusa via radio e con altri mezzi mas­smediologici viene scelta per il suo contenuto blando e per la sua ‘qualità’ prosaica: il pubblico non va stancato. il pubblico non va sollecitato, così come non si deve distrarre la gente mentre lavora o mentre guida l’automobile: il pubblico ha bisogno dei biberon e quindi va accontentato!
Sempre meno persone nutrono dubbi su un futuro totalmente dominato dalla tecnologia e da un’élite di professionisti e di manager di mega-aziende, e dai metodi adottati per rag­giungere questo futuro. Forse non interessa a nessuno chi convaliderà i nostri passaporti -sia esso un funzionario governativo, un dirigente della Walt Disney o della Fiat-, ma bisogna ricordare che nuovi dei hanno invariabilmente portato brutte notizie, riti di soffe­renza e auto-negazione, e hanno avuto bisogno di oracoli e culti di preti per spie­garli. La gente è stata sempre pronta a fare un gesto estremo per rabbonire il nuovo dio, e la pratica del sacrificio umano è tra le preferite, sia che esso debba essere cruento o incruento!

Oggidì un bambino di cinque anni ha sentito più suoni fatti passare sullo spartito musicale che Mozart nell’intera sua vita. Lo sviluppo di maggiore importanza nella musica dei tempi moderni è la condizione rilevantissima dell’inquinamento acustico. Siamo inondati di musica/rumore che ci accompagna nelle attività quoti­diane, che ci piaccia o no. Quasi nessuno, in cuor suo, ascolta questa musica, quasi non ci accorgiamo che esiste, ma si insinua lentamente, in maniera subdola. In questo modo la nostra sensibilità, come la nostra attuale capacità di udire, è in costante declino. Siamo esposti a livelli di decibel insopportabili. Nelle zolle urba­ne, sopratutto, siamo assaliti da un’invasione persistente e ripetitiva. Ci stiamo abituando a reagire solo allo stimolo sonoro che supera un certo limite di volume, tanto che una musica riesce a commuoverci raramente poiché siamo sopraffatti da altri disturbi. L’inquinamento acustico senza dubbio è uno dei pericoli più grandi per l’intero ecosistema, eppure viene scarsamente enfatizzato nella lista sempre più lunga dei disastri che la civiltà occidentale porta con sé. E piuttosto che affron­tare la verità la gente preferisce essere sommersa da essa.
Dario Fo racconta di un paese che si chiama Caldé e che sta sparendo lenta­mente nel Lago Maggiore. Purtroppo i suoi abitanti non ci credono e proprio men­tre stanno annegando, facendo glu-glu, riconoscono che c’è troppa umidità. Ecco, anche noi stiamo facendo glu-glu e sempre di più la gente soffre di difetti all’udito senza che per questo si voglia correre ai ripari. Per molte persone la sordità è una menomazione professionale, come può testimoniare Pete Townsend degli Who o il pilota di un aereo.
Come esistono regolamenti a proposito dell’inquinamento atmosferico, così sono state decretate precise norme riguardo alla soglia dei rumore che un essere umano non può sopportare, eppure come ognuno sa, in molte città si respirano sostanze tossiche ben oltre i limiti stabiliti. E lo stesso vale per il rumore. Quello delle protesi acustiche è un settore in sviluppo, e pare che fra non molto sarà un fatto comune vedere persone con protesi acustiche come lo è oggi vederle con gli occhiali da vista.
Mi ricordo un commento sulla guerra del golfo: con gli stessi costi era possi­bile pulire il pianeta di ogni discarica tossica e fare qualcosa per impedire ulteriori degradazioni dell’ozono. Se questo è vero, perché i pubblicisti con le antenne non azzittiscono i macchinari, perché non regolano la manipolazione dell’ambiente sonoro e non creano rifugi di silenzio?
Supponiamo di non trovare nessuno voglioso di sponsorizzare la conservazione dei nostri timpani. Questo appello, come altri, forse arriva troppo tardi: probabilmente persone potenti sono ormai mezze sorde. Perché a qualcuno che ha già perso l’udito dovrebbero importare le orecchie di un altro? Sarebbe come chiedere a un impotente di promuovere una campagna di diffusione del preservativo! E’ plausibile, allora, pensare all’arte e alla musica come unica profezia capace di cambiare un mondo post-apocalittico?
Strano a dirsi, eppure i primi segnali di una realtà nuova stanno emergendo proprio da quell’inquinamento sonoro a trecentosessanta gradi che caratterizza la cultura trash contemporanea. Muniti di apparecchiature tecno-scientifiche nemme­no molto costose, tutti, oggigiorno, possono rubare e copiare idee, immagini, suoni; tutti possono copiare o imitare qualcuno o qualcos’altro, tanto quasi nessuno riuscirà a riconoscere la provenienza del modello.
Oliviero Toscani dice che stiamo vivendo la cultura del karaoke: la cosa importante é attrarre attenzione e denaro.

All’interno di queste frequenze disturbate, uno strumento chiamato il campionatore funge da base a compositori, musicisti e ingegneri dei suono: con quest’ul­timo e qualche altra attrezzatura, chiunque, con un supporto economico e la capa­cita tecnica acquisibile da un prontuario, può accedere a musica e suoni straordina­ri. Il lato artistico subentra quando vengono utilizzati i materiali campionati, nella registrazione e nel missaggio: armati con strumenti digitali, microfoni supersonici, cuffie e campionatori grandi come uno zaino, i ‘sound hackers’ sono li fuori a catturare ogni rumore capace di stimo­lare la loro fantasia, per poi ricostruirli su base elettronica.
Ritmo e rumore: non c’è cultura sul pianeta che non abbia trovato un accordo tra queste due forze elementari. Nella teoria dell’informazione, il segnale è parte del messaggio che contiene un significato. In altre parole, il rumore è pari al non­senso. Ma il segnale di oggi diventerà il rumore di domani, e viceversa il rumore di oggi sarà presto goduto come il segnale di domani. Allo stesso modo in cui gli artisti possono prende­re, alterare e riarrangiare le immagini, i musicisti possono catturare, scolpire e riorganizzare suoni e musica.
Fino a poco tempo fa, gran parte della musica al computer era poco più di un fenomeno meccanico o una celebrazione di esso, ora, invece, esistono musicisti che usano il computer come qualsiasi altro mezzo tecnologico. C’è un nuovo mondo dedicato al suono e nuove possibilità espressive emergono dal software. Sono segnalazioni di linguaggi musicali originali in evoluzione. Musicisti ispirati cominciano a trasformare gli elementi di quell’invasione sonora in musica eccitante e inquietante. Chissà, forse questo e l’inizio d’un’espressione artistica gloriosa e innovatrice, pari a quella dei gospel nero.
Si dirà: e dell’orecchio ferito da surplus sonoro cosa ne facciamo? Niente paura, dato che la tecnologia digitale rende possibile il suono multi-dimensionale. Così ‘surround’ comincia a essere una parola usuale. Microfoni molto sofisticati riescono a rendere gigante il micromondo; si può addirittura spiare via satellite ogni intima parola di Saddam Hussein.
Anticipando il grande bisogno dell’umanità sono stati fatti investimenti sostan­ziosi per lo sviluppo e la sperimentazione di una società senza orecchie. È già rou­tine mediare la nostra comprensione spaziale attraverso un paio di occhiali e lo schermo rettangolare di un computer e di una tivù o di un lunotto d’automobile. Forse potremo provare a intuire e a sentire il suono attraverso il nostro corpo, que­sto dopo varie esperienze con protesi acustiche. C’è già una nutrita lista d’attesa per un’invenzione nuova: il cosiddetto ‘orecchio bionico’, un’apparecchiatura in grado di fare le veci dei canali auricolari. E composto da un microfono ricevitore che raccoglie le informazioni esterne e un processore che le elabora e le trasforma in segnali, proprio come un campionatore primitivo.