Un amarcord della «beat generation»

Di Riccardo Sgualdini

C’era una volta la «beat generation». E c’era un tempo in cui tutti leggevano i poeti beat. Chi non conosce «Sulla strada» di Jack Kerouc In Italia la «febbre del beat» cominciò a imperversare intorno al 1962, quando venne pubblicata la prima antologia di «poesia arrabbiata american» con versi di Ginsberg, di Kerouc, di Corso. Già, Gregory Corso, il più sottovalutato, forse, tra i poeti «beat». Di certo il più rappresentativo, il più tipico esponente.
Il più sottovalutato perché nelle pubblicazioni «ufficiali» sulla letteratura beat è spesso ignorato; il più rappresentativo perché Corso incarna comunque tutti i caratteri della mitica «generation» la marginalità esistenziale, lo slancio poetico esasperato, l’impossibilità di qualsivoglia integrazione sociale, gli interminabili viaggi; il look e i vezzi esteriori le letture in pubblico, il gusto per lo scandalo, il nero, la trasandatezza. «Jazz in Sardegna» offre domani l’opportunità di conoscere i mille volti di Gregory Corso con una conferenza presso la sede dell’Arci (via Asproni, 24), inizio a mezzogiorno, e con un recital-concerto al Teatro dell’Arco alle 21,30 che vedrà il poeta accompagnato dal bluesman Francis Kuipers.

Gregory Corso non diventa beat ad un certo punto della sua vita, non viene folgorato sulla via di Damasco. Nasce beat, nelle condizioni «migliori» per essere tale: «Nato da giovani genitori italiani padre di 17 madre 16, nato a New York Greenwich Village mia madre l’anno dopo lasciò mio padre e tornò in Italia così cominciai vita orfana e quattro genitori adottivi e a 11 anni mio padre si risposò e mi riprese ma tutto andò storto perché due anni dopo scappai e presto fui rispedito via al riformatorio per due anni e rilasciato tornai a casa e scappai ancora…». Così nell’«Autobiografia» e nello stile di Gregory Corso. Poi tre mesi in un ospedale psichiatrico «con vecchi matti che pisciavano in bocca ad altri vecchi matti malconci»; poi ancora una fuga e l’adolescenza trascorsa tra i «rifiuti» di New York gli irlandesi, gli italiani, i texani. Poi tre anni in un carcere dove «la maggioranza erano negri e odiavano i bianchi e si approfittavano terribilmente di me», ma anche dove poteva leggere e studiare. Esce di prigione a vent’anni, «colto e innamorato di Chatterlton, Marlowe e Shelley».
Poi l’amicizia con Allen Ginsberg, la scoperta delle poetiche contemporanee, qualche vano tentativo di lavorare, un lungo viaggio in Africa e Sud-America, le prime pubblicazioni, «Vestal Lady» (1954), «Gasoline» (1956), due premi letterari (1959), il matrimonio fallito, l’isolamento, la droga, l’alcolismo.
Fin qui la biografia, quale può contare, forse, per gli studiosi o per una tesi di laurea sui «poeti minori contemporanei e viventi». Ma sbaglierebbe lo studioso o il laureando che volesse leggere la poesia di Corso cercando indizi nella sua vita. Lui non accetterebbe, perché per Corso «non è la vita a fare la poesia, ma è la poesia a fare la vita».
La poesia per lui è allora affrancamento dalla squallida prosa del quotidiano, gesto sublime e sublimante. Corso è elegiaco, è mitologico, è sentimentale, paradossale, esagerato, incline agli accessi passionali.