Napoli Napoli Napoli di Abel Ferrara
2009, cineclandestino.it
Di Raffaele Meale
Dopo una serie di interviste realizzate nel carcere femminile di Pozzuoli, Ferrara, colpito dalle dichiarazioni fatalistiche delle detenute, ha innestato sulle loro storie di vita tre diverse narrazioni, scritte con tre diversi sceneggiatori. Di Vaio ha rielaborato la sua esperienza personale di detenuto, Braucci ha costruito una storia di crescita che passa attraverso un battesimo di sangue, Lanzetta ha composto un dramma familiare in cui si alternano violenza, speranza e vendetta. (sinossi)
Strano il destino di un regista come Abel Ferrara: cresciuto nel Bronx,
nipote di italiani, ha esordito al cinema come autore di film porno (Nine
Lives of a Wet Pussy, anno domini 1976, il titolo in questione), per poi
dedicarsi a un’estremizzazione della poetica metropolitana e violenta che rese
celebre Martin Scorsese. Opere come Driller Killer e Paura
su Manhattan rappresentano con ogni probabilità l’aspetto più laido,
scorbutico e schizoide del cinema statunitense anni ’80; raggiunta la
consacrazione internazionale con un mucchietto di titoli assolutamente
imperdibili (Il cattivo tenente, The Addiction, Fratelli,
fino al solitamente sottostimato Blackout), Ferrara ha gradualmente
iniziato a perdere consensi. Molti attribuiscono questa inversione di tendenza
per quanto riguarda la qualità artistica dei suoi parti creativi alla
dipendenza dalle droghe, altri si accontentano di un ben meno scandalistico
riferimento a una fin troppo comune perdita di ispirazione. Com’è come non è,
negli ultimi anni Ferrara si è barcamenato tra opere ambiziose destinate a
rimanere nel limbo delle buone intenzioni disattese (Mary) e prodotti
clamorosamente sbagliati fin dalla loro genesi (pensiamo in particolar modo
all’imbarazzante Go Go Tales): non sorprenderà quindi nessuno
sapere che, pur nelle sue palesi imperfezioni, Napoli Napoli Napoli rappresenta
uno degli apici artistici di Ferrara nell’ultimo decennio, per lo meno dai
tempi de Il nostro Natale, portato a termine nel 2001.
Napoli Napoli Napoli è un film dalla doppia faccia: da un lato
rappresenta l’incursione di Ferrara nel mondo del documentario, alla ricerca
delle testimonianze di vita carceraria rilasciate dalle ospiti di una casa di
detenzione femminile (e più in generale interrogandosi sull’emergenza sociale
del capoluogo campano), dall’altro si insinua nella fiction nel tentativo di
collegare tre vicende in grado di fungere da paradigma del sottobosco umano e
criminale che abita la città. Per raggiungere questo doppio obiettivo Ferrara,
che certo non si può considerare un esperto di Napoli, si affida al lavoro di
sceneggiatura condotto da Giuseppe Lanzetta, Maurizio Braucci, Maria Grazia Capaldo e Gaetano Di Vaio, e a un team di produttori indipendenti
interessati a unire le forze per portare a termine l’opera. Proprio questa
frammentazione del lavoro, suddiviso tra troppe menti con ogni probabilità non
sempre in perfetto accordo tra loro, è l’elemento che scardina l’ossatura di
Napoli Napoli Napoli, evidenziandone gli a meno spetti limpidi. Operazione a
tratti farraginosa, Napoli Napoli Napoli funziona soprattutto
per quel che concerne l’aspetto meramente documentario: pur non potendo evitare
interventi di politici più o meno interessati ad apparire piuttosto che ad
approfondire la discussione – su tutti si veda il discutibile intervento del
sindaco Rosa Russo Jervolino – il film ha la forza e la capacità di portare
davanti ai nostri occhi una realtà troppo spesso celata. Nascosto dietro la
grande ombra della camorra, esiste a Napoli un microcosmo criminale che le
gravita intorno pur non facendone direttamente parte: è l’universo dei
taccheggiatori, dei ladruncoli da vicolo, degli spacciatori di mezza tacca.
Un’umanità reietta che non ha però la possibilità di uscire dalla sua
condizione, anche e soprattutto per colpa di uno Stato che non ha alcun
interesse a modificare la questione. È nei volti delle donne che si susseguono
sullo schermo, narrandoci la loro vita senza vergogna ma con la consapevolezza
di essere colpevoli tra i colpevoli, che riscontriamo la scintilla vitale che
fa di Napoli Napoli Napoli qualcosa di più di un mero
compitino su commissione. È solo lì che Ferrara riesce davvero a ritrovare le
linee guida del suo percorso autoriale: in fin dei conti cosa hanno questi
disgraziati di diverso rispetto ai criminali da strapazzo che spesso hanno
affollato in passato il cinema del regista newyorchese?
Dispiace semmai rimarcare l’artificio esasperato che inficia la forza della
componente fictionale, riducendola nella maggior parte dei casi allo sberleffo,
e costringendolo a un’ignominia che sarebbe potuta essere evitata con una
maggior accortezza di scrittura e di montaggio: resta, semmai, la sublime
entrata in scena di Ernesto Mahieux, sorta di deus ex machina involontario,
anche se forse si tratta di una consolazione relativa. Chissà se Abel Ferrara
riuscirà mai a ritrovare la spinta creativa che alimentò la sua poetica tra la
fine degli anni ’80 e la metà del decennio successivo: per ora resta il piacere
di vederlo imbracciare la chitarra sul palco e cantare, durante un concerto di
Francis Kuipers – qui anche autore della bella colonna sonora – dimostrando una
verve di non poco conto. Paradossalmente un progetto all’apparenza di passaggio
come Napoli Napoli Napoli potrebbe servire a rigenerarlo e a
spingerlo verso progetti più personali. Come non augurarselo?