Gregory Corso, quintessenza del vero beat

Di Riccardo Sgualdini

Nel camerino, davanti allo specchio, la biro in mano. L’immancabile bottiglia di whisky, lattine di birra, l’ennesima sigaretta in bocca. Gregory Corso butta giù qualche schizzo: un ritratto di donna, rime, versi, poesie istantanee. Manca poco allo spettacolo. Silenzio: genio al lavoro. L’intrusione del cronista potrebbe turbare l’atto creativo: Niente affatto: «Hei, amico! Non potresti procurarmi qualcosa? Che so, del fumo, una «italiana belladonna»? Bene, grazie!». Tutto molto «beat»…
Corso temporeggia dietro le quinte. Si fa precedere dal prologo musicale di Francis Kuipers. Country-blues. Poi, in scena. Il teatro dell’Arco è zeppo di pubblico e di emozione. Lo spazio ristretto, intimo, informale. Il palco è lì; seduto in prima fila ci puoi appoggiare i piedi. Tutto molto «beat». «Cos’è “beat” ?», si chiedeva Gregory Corso in una nota intervista con se stesso. «Oh, persone beat con idee beat che non hanno legami con niente tranne che l’uno con l’altro». L’attualità del «beat», il segreto della sua eternità. Morto il movimento resta l’attitudine.
Come inclinazione «spirituale», oltre la storia.
Inizia il reading: Corso ha composto un addio per l’anno che muore. Come rasoiate si succedono le tappe di un destino tragico: lo Shuttle che esplode al decollo, i bombardieri sulla Libia, Chernobyl, i roghi di Soweto… Corso legge, Kuipers traduce. Andrà avanti così per tutta la sera, e sarà il grande pregio dello «spettacolo». Perché Corso è incline all’eccesso: romantico, sentimentalista, apocalittico, mitologico, tragico. Ma Kuipers diventa elemento straniante, contraltare ironico, suo malgrado, al flusso impulsivo dei versi. Sul palco i due, spesso, battibeccano. Dietro le quinte, Corso si lamenta: «Francis non riesce a rendere lo spirito delle mie poesie, non entra nei miei versi!» Meglio così, perché alle aspirazioni «sublimi, agli slanci eroici, alla lotta dell’uomo contro il suo destino, alle ridondanze, all’affanno visionario, preferiamo di gran lunga la metafisica surrealista di «2 weird happenings in Haarlem», il descrittivismo piano di «Botticelli’s Spring», i ritmi sincopati di «For Miles (Davis) » o, appunto, il frequente e involontario contenzioso con Kuipers: chi non ricorda le famose gags tra «il poeta e il contadino» che resero famosi Cochi e Renato?
Involontario, perché l’autoironia (e, quindi, l’ironia) è tanto estranea a Corso quanto gli è propria, invece, l’enfasi individualista. E in ciò, a dispetto delle sbandierate «radici» italiane, Corso tradisce la sua più schietta natura americana: patriottista anche quando dissidente, eccessiva, altéra, libertaria e moralista, avvinghiata alla vita perché ossessionata dalla morte. Nostalgica: gli ultimi versi della serata parlano di indiani e cowboy. Poi, gli applausi entusiasti per un successo inaspettabile. Nel suo camerino, Corso è già fra le braccia di una donna.